Di Carla Zurlo e Giulia Piva

Corpi Civili di Pace in Ecuador 2020, sede di Ibarra

In questi mesi si è spesso parlato di una “presunta democrazia del virus”, ma non è lo stesso vivere l’emergenza in Italia, in un tranquillo paesino tra le colline toscane, che viverlo in una città ecuadoriana di frontiera.

Durante il nostro servizio come Corpi Civili di Pace a Ibarra abbiamo capito ancora di più che essere nati dalla parte “giusta” del mondo non è un merito, ma solo un caso.

L’emergenza che stiamo vivendo rende stridente parlare di diritti universali in un mondo dove il diritto alla casa, al lavoro, all’asilo e all’infanzia cambiano significato a seconda delle latitudini.

Il caso dell’Ecuador è tristemente esplicativo: le immagini dei corpi dei cadaveri abbandonati nelle strade di Guayaquil, capitale economica dell’Ecuador, le scatole di cartone prima usate per trasportare gamberi e banane, prodotti di punta del settore agroalimentare del Paese ed ora riconvertite in bare per trasportare i defunti, descrivono la tragedia di una nazione e l’incompetenza del Governo davanti all’emergenza.

La nuova pandemia è tutto tranne che democratica e anzi, accentua ancora di più le disuguaglianze sociali scuotendo l’economia di un Paese dove il salario minimo è poco più di 400 dollari al mese e il 60,1% degli occupati non è iscritto a nessun sistema di previdenza sociale.[1]

Su un totale di quasi 17.500 milioni di abitanti, il 46,7% della popolazione attiva dell’Ecuador è impiegata in lavori informali mentre il 22,9% svolge lavori non remunerati.[2]

Essere un lavoratore informale, o non ricevere retribuzione, significa non essere iscritto al RUC, quello che in Italia è chiamato INPS. Non essere iscritti al RUC significa non vedersi riconosciuti i propri diritti; parole come cassa integrazione, sussidi o indennizzi spesso non compaiono nei dizionari dei lavoratori regolari, figuriamoci in quelli di questa fascia della popolazione.

Come Corpi civili di Pace abbiamo avuto l’occasione di collaborare con FUDELA – Fundacion de las Americas – che assieme a partner come l’UNHCR e il Norwegian Refugee Council (NRC) è parte della rete di organizzazioni umanitarie che si occupa di accoglienza, assistenza legale e integrazione dei migranti in Ecuador.

Secondo gli ultimi dati dell’ONU la popolazione migrante rappresenta il 2,24% della popolazione dell’Ecuador ma proprio questa fascia è una tra le più vulnerabili davanti all’emergenza COVID-19: impossibile per loro compiere la quarantena.[3] Molti dei quanti si rivolgono al NRC non riescono a coprire le necessità basiche, il cibo, l’acqua, il gas, internet. La maggior parte di loro che lavorava come venditore ambulante, è rimasta senza casa e senza lavoro a causa del virus, come infatti denuncia la Defensoria del Pueblo gli sfratti sono all’ordine del giorno.

La grave situazione economica in Ecuador e la decisione del Governo di chiudere le frontiere ha spinto molti venezuelani e colombiani ad intraprendere lunghi viaggi a piedi nel tentativo di tornare nel proprio Paese. Il rifiuto del Governo di aprire corridoi umanitari espone queste persone ai pericoli del traffico di essere umani.

K., 26 enne colombiana con 3 figli, ci racconta le continue minacce di sfratto, sono già due mesi che lei e suo marito non possono lavorare. “La situazione è difficile” dice “ma siamo fortunati, almeno noi abbiamo HIAS che ci aiuta con una tessera alimentare. I soldi sono pochi e bastano a malapena a comprare un po’ di cibo. Quello che più mi fa male è non poter esaudire un piccolo desiderio dei miei figli, quando mi chiedono una caramella. I bambini hanno paura, già prima della quarantena non andavano a scuola, quindi per loro niente educazione a distanza. Abbiamo pensato di tornare in Colombia, almeno li abbiamo gli affetti”. 

B., 19 anni venezuelano, racconta di come la sua vita in realtà sia rimasta sempre la stessa. Continua a lavorare nove ore al giorno, più tutte le ore extra non pagate. Anche lui si considera fortunato: anche se guadagna 1,90 $/h può ancora permettersi di pagare un affitto e mangiare. Ci racconta che quando può dà qualcosa a una famiglia di venezuelani che dorme in strada: “tutti ci siamo passati, dobbiamo aiutarci tra di noi”.

Così come l’NRC, anche FUDELA mette in luce che la già vulnerabile popolazione migrante in questo momento lo è ancora di più. A questa situazione di estrema incertezza e precarietà si aggiunge il fatto che dagli organi pubblici locali (municipio e regione) e da parte del governo nazionale non arriva una risposta univoca ed organizzata per supplire ai bisogni generati dalla pandemia. Di conseguenza i migranti si possono rivolgere solo alle organizzazioni umanitarie presenti in città che essendo oberate di lavoro, spesso non riescono a garantire a tutti una risposta immediata e un aiuto. Per far fronte alla situazione, FUDELA sin dall’inizio della quarantena si è messa immediatamente al lavoro per riadattare i suoi programmi, che non sono programmi di aiuto umanitario (anche se probabilmente nei prossimi mesi inizieranno anche a lavorare in questo senso) ma bensì di educazione e sviluppo. Il suo programma “A Ganar” che ha l’obiettivo di favorire l’integrazione socio-lavorativa dei giovani, è stato rimodulato in modo da permettere ai beneficiari, quasi tutti migranti, di poter seguire dei corsi online. I corsi riguardano soprattutto l’ambito informatico (digital marketing, corsi di programmazione ecc.). In più, per adattarsi elle esigenze del mercato hanno pensato a due possibili sbocchi lavorativi per i migranti. Uno è quello di delivery, la consegna a domicilio, che prevede l’acquisto di dieci biciclette da usare per la consegna dei pasti in città e un corso di sartoria per la creazione di mascherine e altri dispositivi di protezione. Per quanto riguarda invece il programma “Campeones Comunitarios” dedicato a adolescenti e bambini si prevede l’utilizzo di video e piattaforme interattive come FUDELA PLAY per entrare, almeno virtualmente, nelle case dei beneficiari e proporgli delle attività ludiche, grazie allo stanziamento di fondi per consentire l’accesso a Internet. La “presunta democrazia del virus”. Mentre per molti di noi l’accesso a Internet è un fatto dato per scontato, che ci permette anche di lavorare da casa o di passare il tempo guardando un film o leggendo il giornale, così non è per molte persone.

Nonostante la priorità assoluta sia l’aiuto umanitario per provvedere ai beni di prima necessità (alimenti, kit di igiene, soprattutto per neonati, soldi per l’affitto) è necessario continuare a lavorare sul tema del lavoro, così come sul piano ricreativo e educativo per i più piccoli. È fondamentale appoggiare i migranti, anche se a distanza, per permettergli di continuare a costruire a piccoli passi una speranza per il futuro. Così come è necessario essere presenti per i bambini e adolescenti, che hanno bisogno di qualche stimolo esterno vivendo spesso a casa una situazione difficile (mancanza di cibo o genitori molto stressati e preoccupati per la situazione). Chi lavora sul campo con FUDELA, ci ha raccontato che la cosa più difficile è riuscire a gestirle il rapporto con i beneficiari a distanza, visto che i mezzi a disposizione sono solo le chiamate e i messaggi WhatsApp, rimanendo empatici e riuscendo a dare risposte chiare. Tra le attività a distanza più importanti che sono state fatte fin da subito c’è stata quella di mandare materiale informativo e invitare i beneficiari ad informarsi solo da fonti ufficiali, spesso infatti circolano catene, messaggi e video che divulgano false notizie, creando ancora più confusione e paura.

Il modo di vivere la quarantena, è bene ribadirlo, non è uguale per tutti, c’è chi si può permettere delle cose e chi no. Il che mette banalmente ancora di più in risalto le disuguaglianze che da sempre esistono. Alcuni migranti venezuelani che vivevano ad Ibarra già da prima dello scoppio della pandemia, ci hanno raccontato come stanno vivendo questo periodo di quarantena. In Ecuador la quarantena funziona più o meno come in Italia per la fase 1, ma con il coprifuoco dalle 2 di pomeriggio alle 5 di mattina. Ad oggi i contagiati, secondo le stime governative, che purtroppo si devono leggere a ribasso, sono 29.420 e i decessi 1.618[4]. Il problema principale che la popolazione migrante risente è ovviamente l’impossibilità di lavorare e, senza lavoro, quindi con meno soldi, le preoccupazioni principali riguardano le spese per l’alimentazione e per l’affitto, senza contare la forte emarginazione da parte della popolazione locale. Discriminazione che rischia di accentuarsi ancora di più in questo momento di crisi e di maggiore scarsità di risorse ed aiuti. Una ragazza venezuelana ci racconta che mentre era in coda per comprare delle uova al mercato, è stato intimata da un signore ecuadoriano di spostarsi dalla fila in quanto venezuelana: secondo lui, dovevano accedere al cibo prima gli ecuadoriani, e se ne avanzava anche i migranti venezuelani e colombiani.

È difficile prevedere come sarà il futuro. I migranti vivono giorno per giorno, sperando di farcela, come in fondo facevano anche prima dell’inizio della pandemia.

[1] Istituto Nazionale di Statistica e Censo (INEC)  Bollettino tecnico N° 01-2020-Encuesta Nacional de Empleo, Subempleo y Desempleo (ENEMDU), consultabile all’indirizzo https://www.ecuadorencifras.gob.ec/documentos/web-inec/EMPLEO/2019/Diciembre/Boletin_tecnico_de_empleo_dic19.pdf

[2] A livello nazionale il lavoro non remunerato nelle zone rurali è il doppio rispetto alle zone urbane (4,9% Vs 10.9%).

[3] Dati https://datosmacro.expansion.com/demografia/migracion/inmigracion/ecuador

[4] https://www.salud.gob.ec/actualizacion-de-casos-de-coronavirus-en-ecuador/