COMUNITÀ – Sono perché appartengo (Ubuntu)

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È proprio mentre mi accingo a scrivere di quest’ultima parola, ultima perché forse sarà l’ultima che analizzerò nell’ambito del progetto di servizio civile, che mi accorgo di una certa familiarità con qualcosa che mi frulla in testa da settimane.

Avvicinandosi la fine del progetto, nonché di quest’anno così strano, sospeso tra altri, e non sapendo in sostanza cosa fare (delle mie forze e dell’esigenza stessa di “fare”, che educatamente fa capolino, dopo un periodo di viaggi chissà dove), ritornava la vecchia idea di trovare un’alternativa all’offerta del “poi” che, forse per miopia, mi angoscia con visioni di tranquillità borghese.

Non schifo il programma della Peroni gelata e meritata alla sera, la quale rappresenta forse il meglio delle mie visioni, e so che ci sono tante possibilità, pur mantenendo tale giusta abitudine, di evitare che una routine di vita fiacchi lo spirito, o di evitare la routine stessa, facendo dei lavori nutrienti, “con le persone” ad esempio, fonte inesauribile di interesse. Ma… come ogni uomo e donna ho bisogno innanzitutto di una dimensione che sia davvero mia, di una casa e ancor prima di una comunità in cui pensare tutto questo.

Quando  penso a una comunità penso ad un sistema di valori più che all’organismo in sé… forse proprio perché mi sento privo di un senso di appartenenza tribale, fondato sulla tradizione prima che sul sangue. Forse.

Forse – riflettevo- una comunità può avere un determinato numero di membri, variabile in base ai temperamenti presenti e alla qualità delle interconnessioni che si vengono a creare. E se volessimo  potremmo visualizzare quest’ultime come formanti un tessuto composto da tante trame diverse, per magari intuirne dalla proiezione fragilità e punti di forza. Qualcosa che, se armonico come le venature di una foglia può esistere, entro, magari, un certo limite fisiologico oltre il quale parte della comunità diventerebbe periferia, sgraziata e guardata con sospetto.

Avevo ragionato su questa cosa qui, considerando i mestieri essenziali all’interno di un nucleo che volesse raggiungere un’autosufficienza di base. Questo poneva il problema di cosa fosse necessario e cosa no, e di quanto un mestiere (altro grande argomento) favorisse l’Uomo e quanto invece un altro la sua meccanicità. E quindi giù domande sul destino della tecnologia, di tutti i prodotti della tecnica, in una società fatta da persone con ambizioni così diverse. E insomma, ancora una volta mi resi conto che stavo andando fuori traccia. Come ora.

Ma ecco, mentre finivo di chiedermi quale forma  potesse assumere una comunità ben proporzionata, che ad un certo punto anche un po’ oziosamente, successe che senza volerlo ascoltai la versione dei miei vicini di casa, compagni di servizio civile, interpellati su cosa fosse significasse per loro “comunità”.

Fu così che vidi quanta fatica stessi facendo a definire qualcosa pensato per più teste e sensibilità.

Perciò… vi lascio a loro

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